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1971, LA MOSSA DI NIXON CAMBIA L'AMERICA
Johnson consegnò a Nixon, eletto con 500mila voti di margine nel 68, un dollaro indebolito. Nixon nel 70 mise il suo uomo, Arthur F. Burns, alla Fed. Professore a Columbia, imperioso, Burns cedette tuttavia alle pressioni di Nixon che, convinto di essere detestato dagli americani e portato spesso a deterstarli, voleva farli contenti con una politica di spesa e farsi rieleggere trionfalmente nel 72, cosa che ottenne. Per poi cambiare molto. Completò quindi, lui che mal li sopportava entrambi, la Grande Società e quindi il New Deal, con importanti voci di spesa. E, per raggiungere il suo obiettivo, liquidò nell'agosto del 1971 il sistema di Bretton Woods, cioè l'anoraggio del dollaro all'oro, per potere creare tutta la massa monetaria senza impicci. Nel 1971 finì per l'unica moneta internazionale, il dollaro, la disciplina dell'oro. La credibilità della moneta era affidata alla sola politica monetaria, credibilità che fu enorme quando Paul A. Volcker, presidente Fed (69-87) spezzò le reni all'inflazione americana e mondiale. E alla fine alla credibilità, finanziaria e non, degli Stati Uniti.
Preparando quel passo, l'allora sottosegretario al Tesoro Volcker, spiegò a Guido Carli che gli Stati Uniti, ed era vero, non ce la facevano più a reggere il sistema dei cambi fissi, non erano più quell'isola di ricchezza in un mare di povertà come erano stati negli anni '50, e quindi il passaggio ai cambi fluttuanti era inevitabile.
Nei giorni scorsi il New York Times e altri giornali americani hanno identificato nel 71, e non è difficile essere d'accordo, la data d'inizio di un processo degenerativo che ha portato alla fine all'ecatombe di Wall Street del settembre 2008, alla scomparsa di tre storiche banche d'investimento e due nello stesso giorno (Lehman Brothers e Merrill Lynch, il 14 settembre), al maggior salvataggio corporate della storia americana (Aig) e al maggior fallimento bancario (Washington Mutual) e a un intervento della mano pubblica impensabile solo pochi mesi fa.
REAGAN, OTTIMISMO E DEFICIT
Ronald Reagan è il presidente che ha chiuso la partita con l'Urss, era un uomo affabile, si comportò con grande stile in un attentato che poteva costargli la vita, all'inizio della presidenza, ed è rimasto nel cuore degli americani.
Gli aspetti negativi di Reagan sono sul fronte economico e sono direttamente legati agli avvenimenti finanziari di questi giorni.
Reagan dette copertura politica alla durissima politica monetaria del democratico Volcker, oggi stretto consulente di Barack Obama, salvo poi sostituirlo, ma eravamo ormai nel 1987, con il più malleabile e repubblicano organico Alan Greenspan. Ma fece da subito una politica di bilancio in deficit, dovuta ai forti tagli fiscali (Reagan le tasse le tagliò due volte e le aumentò tre volte, con una politica a doccia scozzese) e alla non confessata volontà del suo entourage di "affamare la bestia", cioè la spesa pubblica. Lasciando esplodere il deficit, quei tagli che non si potevano fare preventivamente sarebbero stati imposti dalla situazione. Invece le tasse e quindi le entrate alla fine si ridussero nonostante tutte le teorie, ma la spesa no.
Reagan era arrivato a Washington dopo una lunga carriera di sostenitore del fronte iperliberista, un'ala del partito repubblicano ridotta negli anni '50 alla marginalità e che aveva ripreso fiato con Barry Goldwater negli anni '60 per prendere poi nel decennio successivo il sopravvento nel partito. Reagan era stato conduttore dal 54 al 62 del General Electric Theater, un programma che andava in onda ogni domenica sera sulla Cbs, sponsorizzato da GE, e durante il quale Reagan lanciava messaggi in difesa del mercato. E il suo slogan elettorale nel 1970 fu "Lo Stato non è la soluzione, lo Stato è il problema", facile preda di vignettettisti in questi giorni in cui, in effetti, sembra essere lo stato la soluzione. Ma Reagan oggi non viene attaccato, neppure dai democratici. Se McCain nel dibattito di venerdì sera lo ha ricordato con affetto, Obama ha attribuito a George W. Bush le colpe di un eccesso di fiducia nel mercato. Colpe che sono invece di Reagan. Bush è un epigono.
Nessuno riuscì in realtà ad "affamare la bestia", la burocrazia crebbe anche con Reagan, il deficit pubblico raddoppiò rispetto al Pil tra 1980 e il 1988, e David Stockman, l'ultimo ministro del Bilancio conservatore deciso davvero a fare qualcosa per il deficit, alla fine gettò la spugna e raccontò nel suo libro The Triumph of Politics: why the Reagan revolution failed, perché la spesa impazzì. "Il livello di opportunismo sfuggiva ad ogni controllo, e la politica dell'Amministrazione è stata quella di eguagliare o surclassare i democratici (in fatto di spesa, ndr) e così abbiamo fatto". Iniziava la traiettoria che avrebbe portato il debito dai 1000 miliardi dell'ottobre 1981 ai 9.500 attuali. Non sono cifre spaventose e i conti americani, sempre il deficit e fino agli ultimi impegni di salvataggio il debito, rientrano o rientravano nei parametri di Maastricht, se fossero applicati. Ma è stato comunque un netto cambiamento.
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